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Dott. Marco Mura - Pedagogista, Educatore Professionale, Specialista in Pedagogia Clinica --- (Attività Professionali) - Percorsi educativi per minori con: difficoltà d'apprendimento (DSA); disagio sociale e/o relazionale; disabilità (progetti L.162/98; LR 20/97). - Creazione e conduzione di progetti educativi per adulti (L.162/98; LR 20/97) - Consulenza Pedagogica Sostegno alla Genitorialità, Parent Training - Consulenza educativa rivolta a professionisti del settore educativo Per informazioni: dott.marcomura@gmail.com

sabato 5 aprile 2014

Domande e Risposte sui Progetti Educativi

Domande e Risposte sui Progetti Educativi

Chi può lavorare come pedagogista?
Solo i laureati in Pedagogia e in Scienze dell'Educazione (laurea magistrale V.O. o laurea specialistica se abilitante) possono operare nel settore pubblico e privato in qualità di Pedagogista. Per un approfondimento si rimanda alla lettura di "Chi è il Pedagogista?", intervista de Il Sentiero dei Melograni.

Chi può lavorare come Educatore Professionale?
Sono Educatori Professionali coloro che hanno conseguito la laurea in Pedagogia, Scienze dell'Educazione (e successivi ordinamenti), nonchè chi ha acquisito il titolo attraverso il Diploma Universitario di Educatore Professionale previsto dal DM 520/98. Per un approfondimento si rimanda alla lettura dell'articolo "L'Educatore Professionale: un delicato e importante supporto per la crescita".

Chi è il Pedagogista Clinico?
La pedagogia clinica è una nuova scienza indirizzata al vasto panorama dei bisogni educativi della persona. E' una disciplina pedagogica dedicata alla persona, che trova in tecniche e metodologie proprie le risposte necessarie al vasto panorama dei bisogni educativi dell'individuo (minore, adulto, singolo, coppia, gruppo). La pedagogia clinica studia, approfondisce e si impegna a rinnovare metodi educativi finalizzati ad aiutare il singolo individuo e il gruppo a crescere in senso armonico (pedagogia), per raggiungere nuovi equilibri e nuove disponibilità allo scambio con gli altri. Il titolo di acquisisce attraverso un master triennale post universitario.


E' possibile attivare un progetto educativo domiciliare per i Disturbi Specifici dell'Apprendimento?
Pedagogisti ed Educatori Professionali possono operare oltre che nell'ambito scolastico (progetti educativi specialistici) o presso centri e studi, anche a domicilio. Sarà il professionista a valutare le modalità di lavoro, stilando un progetto personalizzato, al fine di intervenire positivamente sulle difficoltà scolastiche o i disturbi specifici dell'apprendimento (DSA) ed eventuali disagi correlati.
Per un approfondimento si rimanda all'articolo "Difficoltà o Disturbi dell'Apprendimento".

Che differenza esiste tra un progetto educativo rivolto a un bambino con DSA e un intervento sul recupero scolastico?
- Chi è chiamato ad intervenire nell'ambito delle difficoltà e dei disturbi specifici dell'apprendimento ha il compito di condurre l'educando verso strategie che lo aiutino a diventare indipendente dall'aiuto dell'adulto (professionista o familiare). Si tratta di interventi specifici volti a far maturare consapevolezza sulle proprie risorse e acquisire un metodo per affrontare le difficoltà.
Ciò non significa che il pedagogista non affronti insieme all'educando le materie scolastiche, ma allo stesso tempo, l'intervento non deve essere concepito come un aiuto finalizzato allo svolgimento dei compiti assegnati dagli insegnanti.
- Invece quelle che comunemente chiamiamo "ripetizioni", finalizzate al recupero dei debiti scolastici o del programma svolto dalla classe ma non appreso, vengono svolte da insegnanti o da persone che hanno il compito di trasmettere nuovamente gli insegnamenti impartiti a scuola e offrire supporto nello svolgimento dei compiti assegnati. 
Per un approfondimento si rimanda all'articolo "Difficoltà o Disturbi dell'Apprendimento".

Chi deve firmare il contratto per il progetto educativo in favore del minore?
E' bene che a firmare il contratto che autorizza il professionista ad intervenire siano entrambi i genitori. Nel caso di separazioni legali o divorzi si dovranno prendere in considerazione le disposizioni a norma di legge.

Nei percorsi di riflessione destinati ai genitori può partecipare anche solo un genitore?
I percorsi pedagogici di accrescimento delle proprie risorse, volte a produrre riflessioni positive circa il proprio ruolo possono essere rivolte anche solo al singolo anche se per un lavoro maggiormente mirato all'educazione dei figli è bene che madri e padri lavorino insieme per garantire coerenza educativa e crescita come coppia educante.

Una nonna o uno zio possono richiedere un intervento educativo per il nipote?
Solo i genitori o chi ne fa le veci (ad esempio tutore, amministratore di sostegno) possono richiedere direttamente un intervento educativo professionale.

Il professionista può avere colloqui con il personale scolastico e gli specialisti di cui si avvale il beneficiario (minorenne o maggiorenne) dell'intervento pedagogico ed educativo?
Solo su autorizzazione scritta è possibile avere contatti con gli operatori che a vario titolo concorrono per il benessere psicofisico del beneficiario del progetto. © ®

Dott. Marco Mura
Pedagogista, Educatore Professionale
Specialista in Pedagogia Clinica
e-mail: dott.marcomura@gmail.com

venerdì 14 marzo 2014

Obesità mediatica: cibo per la mente e per il corpo

Obesità mediatica: cibo per la mente e per il corpo

Viviamo in un mondo in cui le comodità possono rivelarsi risorse o trappole, se mal utilizzate. Il segreto per ricercare il proprio benessere psicofisico risiede nelle nostre capacità critiche. Nel bene e nel male i mass media rivestono un ruolo di grande rilievo nel panorama educativo dell'essere umano, in quanto occupano una posizione di spicco nell'informazione e nella gestione del tempo libero. Quantità e qualità sono due aspetti centrali anche nel rapporto tra uomo e tecnologia. Sono queste due caratteristiche a determinare l'apporto energetico al fruitore dei mezzi di comunicazione di massa e dei prodotti tecnologici d'intrattenimento. Fagocitando ogni istante della nostra vita, o meglio, nutrendoci compulsivamente di ogni momento che questo tipo di tecnologia ci offre, arrechiamo dei danni a noi stessi sotto vari punti di vista. Pensiamo alla gestione del nostro tempo libero incentrata esclusivamente su una comunicazione unidirezionale che va dalla televisione alla persona. Questo rapporto duale, in cui l'uomo è visto solo come destinatario della comunicazione (mai come mittente), spoglia i momenti liberi da altre opportunità come quelle legate alla socializzazione, alla cura del proprio sé (come unità psicofisica) e alla creatività. La strutturazione del tempo gestita dalla TV non offre occasione per sperimentarsi nell'organizzazione del proprio tempo, dal momento che l'uomo viene sostituito in questo dal palinsesto televisivo. Un'eccessiva voracità che spinge l'individuo ad una “obesità mediatica”, la quale spesso si accompagna al sovrappeso dello spettatore. Programmi e cibi di intrattenimento se non utilizzati con criterio (“la moderazione è la salute dell'anima”) portano le persone ad uno stile di vita che non bada alla qualità. Alcuni accusano TV, videogiochi e computer di essere causa dell'aumento di peso della popolazione occidentale. Questi fattori vengono indicati come la causa di un rapporto non salutare con il proprio corpo e la propria mente che, a discapito di temi e comportamenti culturalmente validi, viene stimolata da notizie e abitudini di scarso spessore. Uno studio dell'Università californiana di Ucla, pubblicato dall'American Journal of Public Health, ha messo in relazione gli spot televisivi che pubblicizzano cibi spazzatura e l'aumento di peso dei bambini, dimostrando che una maggiore esposizione a questo tipo di messaggi porta i telespettatori ad una maggiore assunzione di cibo. La vera causa, a mio avviso, è da indicare nel rapporto tra persona e mass media, il quale, se non accompagnato da un percorso educativo, di natura critica, influisce negativamente sullo stile di vita delle persone. L'aspetto quanti/qualitativo del tempo che dedichiamo a noi stessi dovrebbe ricoprire un ruolo centrale nella scelta del tipo di approvvigionamenti mediatici e alimentari, oltre che nella durata dei tempi da dedicare, ad esempio, alla passività televisiva, al cyberspazio o ai videogiochi, figli minori dell'ozio. Spesso veniamo catturati dalla rete di internet e ospitati per un tempo che non riusciamo a quantificare per via di un “gioco” psicologico che altera la percezione del tempo. Questa sedentarietà, meno passiva rispetto a quella generata dalla televisione, in cui social network, videogames, blog e siti web di vario genere, contribuisce all'aumento della massa grassa del nostro corpo grazie alla staticità imposta (unica eccezione, i videogiochi della Nintendo Wii i quali portano il giocatore a compiere movimenti con braccia e gambe per compiere l’esperienza virtuale) e ad una scelta che va a discapito del mondo reale e di tutto ciò che questo rende possibile. Un circuito composto da TV, internet e console per i videogiochi, unito al cibo, il più delle volte non propriamente salutare, regala ai fruitori momenti di svago con un rovescio della medaglia che è bene conoscere per poterlo evitare. Non sono i mezzi sopra citati a doverci preoccupare, ma l'uso che di essi si fa. E' necessario creare un rapporto pedagogicamente corretto tra utenza e offerta mediatica, affinché, in particolar modo, il minore possa essere realmente accompagnato nella realtà virtuale e in quella di tutti i giorni. Sposare un ruolo attivo nella lettura dei messaggi e un utilizzo ponderato dei mezzi di comunicazione di massa e di intrattenimento elettronico, riconoscendo questi strumenti come l’occasione fondamentale per promuovere un’educazione che consenta di prendere le distanze dalla pigrizia e dalla superficialità con cui spesso si affronta la questione dei mass media. © ®


Dott. Marco Mura
Pedagogista, Educatore Professionale
Specialista in Pedagogia Clinica

domenica 26 gennaio 2014

Disabilità alla nascita

Disabilità alla nascita
La vita non può essere programmata, studiata nei dettagli in modo da soddisfare tempi e richieste. Si sviluppa in base alle nostre azioni, ma anche attraverso aspetti che l'essere umano non può controllare.
Pensare ad un/una figlio/a, proiettandolo/a nel futuro, nel quasi presente, con le nostre – e sottolineo nostre – aspettative, non è corretto, può produrre delusioni, causare frustrazione, ma si sa è un modo naturale di vivere questo lieto evento.
Non è mia intenzione discutere in merito dell'interruzione della gravidanza: desidero solo riflettere su ciò che comporta l'incontro alla nascita con disagi psicofisici a cui quasi mai si è preparati.
Il neonato perfetto, sognato, progettato a livello mentale, trasferito nel grembo materno più con la forza del pensiero carico d'amore che per via biologica, tradisce il sogno dei genitori e appare diverso dal progetto idealizzato. L'immaginazione umana ha i suoi limiti: è infatti da questi confini che bisogna partire per ripensare il desiderio di maternità e paternità.
La notizia che il/la vostro/a bambino/a avrà un'esistenza più difficile rispetto ai bambini che nascono senza difficoltà specifiche, di norma, getta la coppia nello sconforto, talvolta al punto da incrinare il rapporto tra i partner.
Sono fermamente convinto che la decisione di portare o meno a termine una gravidanza si possa annoverare tra le decisioni più difficili che un singolo o una coppia sia chiamata a prendere. A farne maggiormente le spese è la donna che viene da subito investita di un compito grandissimo e complesso. Credo sia sempre indicato che la decisione riguardo la scelta di metter al mondo un/a bambino/a con disabilità venga presa da entrambi i genitori. Non si tratta di una scelta facile. Contrariamente a quanto gli antiabortisiti pensano, chi sceglie di interrompere la gravidanza non lo fa a cuor leggero; così come chi, al contrario, opta per il parto arriva a questa scelta con interrogativi e paure. Da un lato quindi non ci sono mostri e dall'altro non troviamo persone impavide e super preparate alle diverse difficoltà.
Nel mio lavoro ho potuto appurare che chi non conosce direttamente o indirettamente persone con difficoltà psicofisiche ha una visione distorta di giovani e adulti che non fanno parte dei cosiddetti “normali”. Pare dunque che a determinare le reazioni degli altri sia sempre l'ignoranza, intesa semplicemente come non conoscenza. Spontaneamente suggerisco allora di adottare questa filosofia di vita “imparo a conoscerti, quindi ti capisco”, abbandonando così la più utilizzata “non ti conosco, non ti capisco e quindi ti evito”. La conoscenza si pone come condizione necessaria per scegliere con maggiore responsabilità. Ma è incontrando la diversità altrui che possiamo capire il disagio? La mia risposta è un sì parziale, in quanto solo conoscendo noi stessi in relazione alle differenze altrui possiamo capire e soprattutto capirci.
Prima di diventare genitori si dovrebbe raggiungere maturità decisionale, consapevolezza della propria individualità e della coppia. Ho iniziato puntando l'attenzione sull'elaborazione mentale del/la figlio/a proprio perchè le aspettative per non essere disattese devono essere formulate correttamente, ossia tener conto dell'unicità della persona che verrà al mondo e di tutte le variabili che nessuno può prevedere e controllare.
Pertanto ritengo utile, se non fondamentale, confrontarsi con chi ha sperimentato maternità e paternità, nonché con chi ha scelto di interrompere la gravidanza davanti ad una diagnosi di disabilità. Quali sentimenti hanno invaso mente e cuore altrui per cercare somiglianze e differenze, quali e quante sono state le ripercussioni sulla vita del singolo e della coppia, sono alcuni aspetti che potrebbero guidare le persone in un parto prima mentale e poi fisico.
Non esistono regole a cui attenersi quando si decide di metter al mondo un/a bambino/a con disabilità; ci sono però aspetti che è bene conoscere in merito al tipo di patologia e gli aiuti a livello normativo, educativo, medico e assistenziale a cui si può fare capo.
È mia certezza però che tali informazioni debbano essere in possesso di tutti coloro che intendono diventare genitori, dal momento che la disabilità può presentarsi sia prima che dopo la nascita. Da un lato abbiamo patologie di tipo cromosomico che sono individuabili durante il periodo della gravidanza; dall'altro patologie che possono manifestarsi durante le fasi del parto o essere diagnosticabili in un secondo momento. Ecco perchè conoscere ciò che ruota intorno alle emozioni, alle possibilità e alle difficoltà di chi ha un/a figlio/a con disabilità sono necessarie. Chi affronta la gravidanza con la consapevolezza di un neonato che verrà al mondo con determinate difficoltà presenterà uno stato emotivo più accogliente e disteso di chi invece ha vissuto la maternità/paternità senza interrogarsi su un questa eventualità.
La disabilità può colpire e colpirci ad ogni età. Scegliere è possibile sino a un certo punto perchè, come è noto incidenti e patologie invalidanti (a livello fisico, psichico e sensoriale) possono presentarsi durante l'arco di tutta la nostra esistenza. Ci sono cause rintracciabili nel periodo prenatale, perinatale e postnatale. Ecco dunque che l'argomento non può escludere nessuno dalla riflessione sulla genitorialità, disabilità e società.
Interessarsi a questo tema è importante per la crescita individuale e collettiva. Anche chi non dovrà rapportarsi in maniera diretta con questo tipo di difficoltà, avrà però modo di sperimentarsi o far esperire al/alla proprio/a figlio/a la convivenza con minori e adulti in stato di necessità. All'interno della propria famiglia, nel condominio, a scuola, a lavoro, al parco, in piscina, al super mercato: questi e infiniti luoghi offriranno momenti di confronto. Genitori in-formati garantiranno così maggiori possibilità di inclusione, comprensione a tutto tondo dell'altro, lontani da stereotipi e costumi mentali nocivi ed improduttivi.
Dovrebbe far parte della cultura di base la conoscenza dei servizi e delle opportunità garantite dallo Stato italiano a chi vive il disagio psicofisico.
Fortunatamente oggi esistono tanti professionisti che possono offrire supporto a genitori e figli, oltre ad associazioni onlus specifiche per patologia.
Veniamo alla normativa. In Italia abbiamo la Legge n° 104/92 “per l'assistenza, l'integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate” (leggi il testo www.handylex.org/stato/l050292.shtml); la legge n° 162/98 (www.handylex.org/stato/l210598.shtml) la quale si traduce in Progetti Educativi e/o Assistenziali (per ulteriori informazioni vedi www.legge162.jimdo.com).
Se un minore o un adulto presenta una percentuale di invalidità (indicata nel verbale dell'accertamento dello stato di disabilità) vicino o pari al 100% è possibile presentare domanda per ottenere un sussidio, vale a dire l'accompagnamento (nel verbale risulterà la dicitura “100% di inabilità lavorativa con necessità di assistenza continua, non essendo in grado di compiere gli atti quotidiani della vita”). Per i minori che beneficiano dell'accompagnamento non è però possibile usufruire dell'indennità di frequenza (in questo caso nel verbale troverete la dicitura “Minore con difficoltà persistenti a svolgere i compiti e le funzioni della propria età”). Siamo nell'ambito dell'invalidità civile. Per un approfondimento si consiglia la letture delle FAQ su www.dirittierisposte.it/Schede/Persone/Salute/invalidita_civile_id1128399_art.aspx.
Dalla burocrazia poi si passerà al percorso educativo e al sostegno ai genitori per garantire una crescita armoniosa che sfrutti al massimo il potenziale del singolo e della famiglia.
Per conoscere le finalità dei Progetti Educativi ai sensi della L.162/98 vedi www.legge162.jimdo.com/progetti-educativi (su Facebook www.facebook.com/Legge162). © ®


Dott. Marco Mura
Pedagogista, Educatore Professionale
Specialista in Pedagogia Clinica

venerdì 7 giugno 2013

L'adolescente: era mio figlio

L'adolescente: era mio figlio
Guardare un figlio o una figlia e scoprire che l'adolescenza è arrivata durante la notte, senza preavviso, così, di soppiatto.
Scoprirsi adolescente, con un corpo che testimonia il (grande) passo successivo all'infanzia, una proiezione approssimativa della vita adulta, destabilizzante, scomoda, desiderata da un lato e dall'altro con aspettative tradite.
Sino a ieri era il/la vostro/a bambino/a, oggi non è più chi conoscevate e tutto questo nel giro di una notte! Spesso ho sentito genitori che al primo incontro, fissato per affrontare la nuova sfida educativa, parlavano di questa rapidissima ed inaspettata metamorfosi che mutava il/la bambino/a in un/a adolescente con caratteristiche non rintracciabili nella sua storia familiare recente.
La realtà è che l'adolescenza arriva inesorabilmente e che da tempo non costituisce una novità, tanto meno una rarità. Una fase difficile per chi la vive direttamente e indirettamente, in cui la difficoltà per il giovane consiste nell'adattamento richiesto ai cambiamenti somatici, psichici e socioculturali, per il genitore nel trovare nuovi strumenti per orientarsi nelle modalità relazionali ed educative. Non è una malattia, anche se forse qualcuno vorrebbe lo fosse per poter giustificare determinati atteggiamenti e magari fare ricorso a qualche farmaco visto che oggi tante manifestazioni comportamentali rischiando di essere affrontate farmacologicamente. Si tratta di un passaggio molto importante per la vita del singolo e della famiglia. La pedagogia in questo può fare tanto sostenendo la costellazione familiare e non intervendo in sostituzione dei soggetti coinvolti o escludendone alcuni, ritenendo che l'azione debba svolgersi dall'alto e non in un'ottica orizzontale. Pensare all'adolescenza deve coincidere con un lavoro educativo sulla famiglia. Più avanza questa parentesi biografico-esperienziale e maggiori diventano le preoccupazioni di madri e padri.
Dai mass media arrivano spesso sconvolgenti scenari che ritraggono l'adolescente come un individuo caratterizzato dalla pura trasgressione. Con un passo indietro però è possibile pensare alla propria adolescenza, non per paragonarsi a quella dei/lle propri/e figli/e, ma per ricordare quale fosse la definizione e descrizione data della propria generazione e quali sensazioni suscitasse ogni forma di etichettamento, generalizzazione e soprattutto incomprensione.
L'adolescenza è differente per soggettività, per famiglia di appartenenza e soprattutto per il tipo di società che accoglie questa fase della crescita. L'attuale sistema socioculturale ha fornito come culla il consumismo e l'immediato soddisfacimento. Il “tutto e subito” funziona come tecnica commerciale che, attraverso il sistema rateale, consente di entrare in possesso di un oggetto pur non avendo ancora terminato o persino iniziato il pagamento. Nell'ambito delle vendite il percorso che conduce all'acquisizione di un bene è stato rovesciato, ma nell'ambito pedagogico questo iter a ritroso non deve assolutamente trovare collocazione. Questo meccanismo è assolutamente valido anche per quanto concerne la libertà. È giusto, anzi doveroso, avere la possibilità di guadagnare la fiducia, bene prezioso per chi la dona e per chi la ottiene, ma sempre in un sistema di reciprocità che deve alimentarsi costantemente.
Ma questo/a figlio/a si è veramente trasformato in sole ventiquattro ore? Ovviamente no. Non possiamo ignorare il trascorrere del tempo e i piccoli segnali che dovrebbero guidarci alla consapevolezza della progressiva crescita dei figli.
Il genitore inizia a non essere richiesto come un tempo, è meno credibile, al contrario degli amici, le richieste sono accolte con qualche resistenza in più, il divieto, che prima veniva subito osservato, ora inizia ad essere messo in discussione, insieme a tanti altri cambiamenti che poi, in piena adolescenza, daranno vita a discussioni più accese.
Diffidate dai vademecum pedogogici e psicologici che offrono protocolli applicativi per rispondere alle esigenze che a livello statistico si presentano nell'adolescete tipo. Ascoltate, osservate, dialogate e non abbiate paura di essere genitori poco competenti se scegliete di parlare con un pedagogista di dubbi e perplessità derivanti dai nuovi cambiamenti. Coltivate quotidianamente il rapporto con i vostri figli e non scopritevi genitori con l'insorgere dell'adolescenza, incarnado il ruolo dell'autorità competente. L'adolescente ha memoria: ricorda chi siete stati prima e chi siete ora; ha una visione molto critica dell'operato di tutti gli adulti e, allo stesso tempo, è ipercritico verso di sé, perchè talvolta non sa se si piaccia oppure no. I punti fermi, infatti, non devono mai mancare. Non solo: serve anche un luogo sicuro in cui poter tornare. La famiglia deve rappresentare un porto in cui fare ritorno, in particolar modo quando il mare è agitato e burrascoso. La sicurezza deve albergare anche nei confronti, per quanto accesi siano. Meglio incontri simili a quelli del pugilato, che scontri dove manca del tutto la lealtà. Era ed è vostro/a figlio/a e non si è perso/a; semplicemente sta crescendo e come spesso accade i cambiamenti chiedono di attingere dal proprio spirito di adattamento. Servono energie, tempo, disponibilità ad ascoltare e sperimentare, libertà di espressione del proprio sé, opinioni e confronti e mai dovranno mancare i limiti. I paletti che segnano i confini però devono essere sempre costruiti con materiali elastici in modo che su di essi possa essere esercitata e sfogata la forza adolescenziale che mira all'indipendenza e alle spinte verso l'adultità.
L'adolescenza non è brutta come la si dipinge e per gli adolescenti anche i genitori, in fondo, non sono poi così male. © ®

Dott. Marco Mura
Pedagogista, Educatore Professionale
Specialista in Pedagogia Clinica
 

domenica 2 giugno 2013

Percorsi di riflessione per crescere come genitori
Oggi, più che in passato, la pedagogia e tutti coloro che si occupano di educazione a livello professionale e familiare, sono chiamati ad un rapporto più attento con gli elementi che entrano in gioco nella crescita della persona. In particolar modo stiamo assistendo a rapide trasformazioni nell'ambito familiare: una sfida a cui occorre rispondere con puntualità. La famiglia rappresenta un microcosmo che non può risolversi nelle dinamiche interne ad essa, dal momento che la società la contiene e che il nostro campo d'azione non si limita a ciò che possiamo trovare al di fuori della porta di casa, nella scuola, ma implica un mondo di idee ed insegnamenti che viaggia anche attraverso gruppi informali e mass media, come televisione e internet. Non si tratta di restare in attesa di meri insegnamenti o di consigli che suonano come dogmi, ma di percorre una strada che conduca alla scoperta e alla riscoperta delle proprie risorse, in modo tale da ricoprire con consapevolezza il ruolo di genitore. Rompere la solitudine interna alla famiglia e alle famiglie, creando condivisione di esperienze e saperi in un luogo sicuro, lontano dal giudizio, governato dalla comunicazione democratica, riconoscendo pari valore e diritti a tutti.
Il termine consulenza non rende l'idea del modo con cui viene affrontato il lavoro insieme ai genitori e alla costellazione familiare, in quanto dal punto di vista pedagogico e pedagagogico clinico ridurre un incontro con l'altro in termini di elargizione di consigli avrebbe da un lato la presunzione di rapprensentare la ragione e l'infallibilità del professionista a discapito della fallibilità del genitore e, dall'altro, spoglierebbe madri e padri delle proprie risorse personali messe in campo sia per la propria crescita che per quella della coppia e della famglia. I percorsi di potenziamento e crescita delle competenze genitoriali, sono in primo luogo dedicati alla conoscenza di se stessi come genitore slegato dal/dalla partner e come coppia affettiva e educativa. Prendendosi cura di se stessi, imparando ad osservarsi e a mettersi in gioco, i genitori possono riscoprirsi adulti con grande curiosità nei riguardi del mondo. Tutto è in evoluzione: lo è il singolo, la coppia, la famiglia e la società. In base a questo assunto diventa improduttiva la staticità e la rigidità che spesso accompagna gli stili educativi interni alla famiglia. Retaggi antichi, schemi riproposti attraverso esperienze passate (“con l'altro figlio ho sempre fatto così”), eredità educative impiegate come soluzione automatica non ponderata e tante altre modalità di relazione educativa.
Il pedagogista accompagna, sostiene, offre uno sguardo differente e facilita il genitore nelle sue riflessioni e azioni grazie al riconoscimento del suo potenziale e delle spinte verso un continuo rinnovamento delle proprie capacità. Sono contrario a tutte quelle strade che conducono esclusivamente ad un semplice insegnamento di tecniche da applicare, che attualmente prendono il nome di tutoring educativo, parent training, coaching – vale a dire la classica consulenza educativa - che mettono in rilievo le competenze metodologiche del professionista e non offrono uno spazio di confronto, crescita e valorizzazione per madri e padri. Consulenze educative sì, ma non slegate dai percorsi pedagogici che guardano l'altro come soggetto capace, portatore di valori e abilità. Un lavoro in sinergia con la diade genitoriale o con il singolo genitore, per arrichire il bagaglio educativo e fortificare la persona. Diventare una figura educativa surrogata che imita un professionista, a mio avviso, non paga. Conoscere e comprendere il singificato di alcuni approcci educativi è utile, ma senza un adeguato percorso personalizzato per il genitore ci troveremo davanti ad un soggetto con compenteze professionali molto approssimative, privato di tante opportunità di cambiamento costruttivo nella relazione affettiva e educativa con i propri figli. I compiti a casa sanno tanto di ammaestramento e pertanto non offrono garanzia di esito positivo. Si impara ad essere genitori non attraverso un corso ma con la conoscenza di noi stessi, del Noi della famiglia.
Presupposto fondamentale dei percorsi pedagogici rivolti ai genitori e alla costellazione familiare risiede nella disponibilità a mettersi in discussione, senza la ricerca di colpevoli o la santificazione del proprio operato. Solo abbandonando ogni forma di resistenza e convinzione di infallibilità è possibile diventare osservatori obiettivi del passato e del presente, garantendo di conseguenza maggiori opportunità di crescita al futuro dei propri figli, della propria famiglia.© ® 

Dott. Marco Mura
Pedagogista, Educatore Professionale
Specialista in Pedagogia Clinica
e-mail: dott.marcomura@gmail.com

Il pedagogista. Una professione in favore delle persone


Il pedagogista. Una professione in favore delle persone
L'etimologia del termine “pedagogia” richiama l'accompagnamento (guidare, condurre) del bambino nel suo percorso di crescita. Il pedagogista è un esperto dei processi educativi e formativi incentrati sulla persona di ogni età, che prescinde dalla presenza o meno di uno stato di disagio (fisico, psichico, sensoriale o sociale). Questa disciplina è chiamata a rispondere ai vari quesiti che la vita pone davanti all'essere umano, aiutando la persona a trovare in sé le risorse per meglio reagire alle sfide quotidiane, mediante una guida nelle riflessioni necessarie al superamento degli ostacoli che frenano il raggiungimento del proprio benessere.
L'azione pedagogica risponde ad una forma che rispetta la natura umana e l'unicità del soggetto; pertanto è portata a rinnegare tutte quelle metodologie legate all'ammaestramento e alla cecità ostinata che riconosce nell'altro esclusivamente aspetti negativi, richiamo costante di una certificazione medica del deficit o di mere etichette sociali.
La pedagogia abbraccia la formazione della persona lungo tutto il corso della sua esistenza, occupandosi delle tematiche che interessano l'educazione permanente, vale a dire di quel processo che vede nella vita l'occasione costante per poter cambiare positivamente.
La crescita, il cambiamento positivo, inizia e non termina in una tappa determinata, la quale di norma viene indicata nell'adultità, con il raggiungimento di una maturità sterile che nega il continuum del processo educativo. Sono gli eventi destinali, nascita e morte, a determinare l'inizio e la fine del processo di cambiamento. Ora si parla di educazione permanente proprio perché si è compreso l'alto valore della scoperta e della riscoperta di sé, grazie all'individuazione delle proprie risorse e alla funzione positiva della creatività che consente di arricchire ogni istante della nostra esistenza. Cresco, perché esisto. Il processo di cambiamento – inteso come crescita, atto educativo - è la conferma di quella sana curiosità che ci porta a muoverci lungo l'asse positivo della vita, diventando persone migliori, mantenendo l'interesse per il presente e il futuro.
La pedagogia, figlia della filosofia, ha operato quel processo di maturazione che vuole veder crescere la prole e diventare indipendente pur riconoscendo i meriti genitoriali. Questo passo portò la pedagogia a staccarsi dalla filosofia e divenire una scienza sociale di natura empirica.
Questa disciplina, come sapere e pratica che dà forma, mediante il “portare fuori”, “l'arte del far emergere” (e-ducere – l'azione educativa), mette al centro l'essere umano come artefice dei propri cambiamenti, attraverso percorsi di riflessione. Il pedagogista riflette e teorizza sulle tematiche dell'educazione e quindi della formazione: una forma in linea con la natura umana, lontana da pervertimenti della crescita e da visioni medicalizzate che portano ad identificare l'uomo come un paziente o con la patologia o il disagio che vive. L'obiettivo di accompagnare la persona nel sul percorso formativo, senza imporre cambiamenti, in modo da consentire una vita indipendente mediante la maturazione e l'esercizio delle proprie capacità.
Alla base dell'agire educativo troviamo la comunicazione, intesa non solo come quell'atto di rendere noto un messaggio, ma anche di metter insieme e condividere informazioni e comportamenti positivi, attraverso atteggiamenti empatici, volti a comprendere gli stati d'animo altrui.
I pedagogisti non promuovono azioni esclusivamente in favore di chi vive situazioni di disagio, ma si rivolgono a tutte le persone, dal momento che l'educazione si configura come la linfa che alimenta costantemente la crescita di ogni individuo.
La formazione umana, sotto quest'ottica, viene vista come quell'azione che dà forma (forma-azione); un agire che promuove cambiamenti partendo da motivazioni intrinseche alla persona per il raggiungimento di obiettivi specifici e universali come il benessere psicofisico.
All'interno dell'ambito pedagogico viene riconosciuto e tutelato il principio di diversità, visto che ognuno deve poter vivere in libertà, senza omologazioni e potersi così esprimere. La persona è unica ed irripetibile, diversa dagli altri e pertanto portatrice di preziosa ricchezza per chi la incontra.
La scienza pedagogica si rivolge a tutti gli aspetti che caratterizzano la vita nello senso più ampio del termine. Tutti gli ambiti che riguardano la società vanno a costituire i temi di riflessione e della ricerca pedagogica. Pensiamo ai mass media, all'istruzione, alle scelte educative genitoriali, alla devianza minorile, al diagio psico-fisico, all'adattamento ai cambiamenti imposti dall'invecchiamento, all'educazione sessuale e a tutti quegli aspetti che concorrono alla formazione umana: un'infinità di argomenti che, come si può vedere, incidono sul percorso di vita individuale e collettivo.
Una disciplina che, attraverso il suo sapere in constante evoluzione, si erge come guida per una vita nel rispetto del singolo e del gruppo.© ®

Dott. Marco Mura
Pedagogista, Educatore Professionale
Specialista in Pedagogia Clinica
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mercoledì 24 aprile 2013

La Pedagogia dei simili

La Pedagogia dei simili
Nasciamo diversi e lo diventiamo ancora di più se la nostra vita è vissuta nel rispetto della libera espressione del nostro sé. 
Nell'ambito accademico si parla di Pedagogia Speciale: ma dove risiede questa qualità? 
Il termine “speciale” trova collocazione nelle difficoltà certificate, nella diversità spesso scambiata per inferiorità, scarso valore, non-persona.Olimpiadi speciali, pedagogia speciale, un/a ragazzo/a speciale...
Le parole sono fondamentali per la rappresentazione del mondo esteriore ed interiore. Più che batterci per l'abolizione di vocaboli sgraditi all'orecchio e al cuore – senza sottovalutare l'oltraggio intellettuale e culturale che alcuni lemmi portano con sé – si dovrebbe pensare alla rapprensetazione mentale che ne consegue mediante l'uso di determinate parole/concetto.
Partendo dal presupposto che non siamo nati grazie a tecnologie industriali che ci rendono identici al nostro prossimo e che ognuno di noi possiede svariate singolarità, non ci resta che ammettere che la diversità è una condizione congenita dell'essere umano. Meglio concentrarsi sui comuni denomintaori e così parlare di una Pedagogia dei Simili, tenendo sempre presente che in ogni percorso di conoscenza emergono elementi che guidano diversamente gli interventi educativi, per obiettivi, tempi, approcci e modalità.
Non scrivo questo per nascondermi dietro a un dito, in quanto come professionista conosco bene la differenza tra il vivere una vita camminando in pianura e una strada caratterizzata da grandi salite e sbarramenti. 
“Specialità” fa copia con la salute fisica, psichica e sensoriale.
Lasciatemi dire che la Pedagogia è di tutti e per tutti. La specialità di cui è stata dotata non le conferisce un valore aggiunto. Mi sembra scontato che in situazioni dove le richieste di guida sono maggiori e il potenziale di partenza di accesso più complesso si lavori sulla ricerca di nuove strategie e più evoluti percorsi di intervento. Ma non è forse un pensare/fare comune a tutti i progetti educativi?
Chi non padroneggia ancora la lingua del Paese in cui vive ovviamente vivrà con maggiori difficoltà le richieste fatte in ambito didattico; chi presenta difficoltà fisiche, come un'emiparesi, dovrà trovare tecniche alternative per raggiungere un determinato obiettivo. Solo nel secondo esempio si parla di specialità e diversabilità.
La specialità o se preferite la diversità consiste nel differente modo di interpretare la vita e conquistare le mete che garantiscono l'obiettivo comune a tutto il genere umano: il benessere psicofisico.
Nei progetti educativi ho sempre trovato validi concetti e approcci che sulla carta di norma vengono destinati a “categorie speciali”. Ad esempio nei bambini o adolescenti con disagio scolastico legato a scarso interesse, disturbi della condotta (non in senso stretto) ho impiegato spesso approcci che fanno capo ai disturbi specifici dell'apprendimento (DSA); nei percorsi educativi in favore di preadolescenti strategie e obiettivi inseguiti nell'ambito della disabilità per la gestione e la cura dello spazio di vita.
Consentitemi poi di riflettere su pubblicazioni che trattano i progetti educativi e riabilitativi delle persone con una particolare condizione psicofisica. Per quanto ogni patologia abbia delle peculiarità, per base genetica - o altro - e relative possibili ripercussioni sul quotidiano, non pensate anche Voi che gli obiettivi siano comuni a tutte le altre persone che intraprendono un percorso di crescita e di vita indipendente?
È vero che in specifici quadri clinici ci sono tecniche più efficaci di altre, ma sempre a seconda della persona con cui (e non su cui) si lavora. Ma è altrettanto vero che modalità di intervento studiate ad hoc per una particolare condizione psicofisica si rivelano valide per tante persone e quindi siano generalizzabili e non così speciali.
Dario Ianes in un suo testo parla di Speciale Normalità, una sorta di “sintesi tra normalità e specialità”. Ianes mostra come nella costruzione di un percorso di crescita i Bisogni Educativi Speciali (BES) incontrino entrambe le nature: normalità e specialità. (Normalità, un'altra parola/concetto di difficle definizione e dubbio valore). Egli parla della normalità del bisogno (obiettivo di crescita ampio) e della specialità nell'accezione di una condizione psicofisica o culturale che amplifica la richiesta di aiuto. Una commistione di termini per mostrare che in un iter educativo e/o didattico l'obiettivo comune e l'approccio possono trovare richieste che necessitano di maggiore riflessione, programmazione ed accuratezza nell'intervento. Una singolarità che nei gruppi può far capo a qualsiasi situazione di difficoltà, permanente o transitoria, individuale e non.
Qualcuno potrebbe dire che è sempre più difficile attenersi al politicamente corretto: invece io sostengo che è sempre più complesso e complicato far capire alle persone che di esseri umani il mondo è pieno e che sono tutti speciali, perchè unici ed irripetibili. © ®

Dott. Marco Mura
Pedagogista, Educatore Professionale
Specialista in Pedagogia Clinica